Dalla primissima infanzia il gioco rappresenta per il bambino una fonte preziosissima di informazioni per la conoscenza di sé, attraverso cui egli acquisisce consapevolezza del suo essere separato dal mondo.
A testimonianza di ciò, vediamo come la componente ludica, pressoché assente nei bambini con diagnosi di autismo, si rifletta in deficit importanti nella sfera delle relazioni e nel repertorio di attività, con conseguente ritardo nello sviluppo globale.
Tra le molteplici funzioni di sviluppo cognitivo, affettivo e sociale del gioco, vorrei porre l’attenzione su 3 di esse, che rappresentano delle pietre miliari nello sviluppo del sé nel bambino e che divengono pertanto parte preponderante nel processo terapeutico rivolto all’infanzia:
- una prima importante funzione del gioco è quella di consentire al bambino un primitivo contatto con l’ambiente, in primis con la figura di riferimento affettivo: è infatti a partire dalle primissime interazioni ludiche madre-bambino, che quest’ultimo diviene consapevole del suo essere separato, quale tappa fondamentale per la successiva individuazione;
- secondariamente il gioco permette al bambino di sperimentarsi come agente attivo, in grado di apportare qualche cambiamento sulla realtà per effetto della sua azione; potremmo paragonare il bambino ad un piccolo scienziato, che realizza importanti scoperte attraverso la propria azione, traendo piacere da ogni più piccolo avanzamento nella conoscenza del mondo;
- in terzo luogo l’attività ludica garantisce al bambino di esercitare la propria spontaneità, che ne rappresenta una inclinazione naturale, troppo spesso inibita e con essa anche importanti potenzialità di sviluppo.
Personalmente attribuisco un importanza rilevante a quest’ultima funzione, in quanto consente al bambino di comunicare liberamente aspetti importanti di sé, attraverso la fantasia e la creatività, quali manifestazioni evidenti della componente spontanea. Per questo sarebbe importante esporre il bambino a materiali “grezzi”, diversi per forma e consistenza, ma privi di un nucleo funzionale predefinito, come invece lo sono i giochi attuali, che limitano il bambino all’esercizio di un unica monotona azione; non ci dovremmo stupire di come gran parte dei giochi che compriamo,vengano facilmente accantonati e sostituiti con richieste che appaiono sempre più pretenziose: essi non offrono quegli stimoli di cui il bambino ha bisogno al fine di comunicare ciò che per lui è importante in un preciso momento della sua vita. Diversamente, offrire al bambino dell’argilla o altra pasta da modellaggio, può ispirare la realizzazione di personaggi su cui costruire un’interessante storia in cui egli ci racconta qualcosa di sé; ritagli di stoffa possono trasformarsi in splendidi abiti con cui “fare finta di…”
Da quanto si è detto, si può meglio comprendere come la psicoterapia rivolta all’infanzia, prenda il nome di “Play Therapy”; in terapia il gioco assume una duplice valenza: quella di facilitare la costruzione di un rapporto di fiducia col terapeuta e quello di stimolare l’es- pressione di vissuti im-pressi nella mente e nel corpo del bambino, sotto-forma di blocchi emotivi e comportamentali. Giocando il bambino parla spontaneamente di sé, ricostruendo eventi non ancora elaborati, o semplicemente dando forma ad emozioni spiacevoli represse o comunque non adeguatamente comprese e liberate.
Nel lavoro con i bambini il gioco rappresenta dunque lo strumento terapeutico per eccellenza, in cui tutte le resistenze costruite a difesa dell’io, sembrano arrendersi magicamente alla spontaneità, quale componente innata che si mantiene, seppur debitamente repressa, anche nell’età adulta… sta a noi terapeuti ridarle vita e giusta dignità!
Tiziana D’Orlando
Psicologa