Se è vero che l’obesità ha sempre a che fare con un eccessivo introito calorico rispetto ai fabbisogni dell’organismo e alle richieste per l’attività svolta, ci sono molti e complessi aspetti psicologici che condizionano e accompagnano questa condizione. Secondo alcuni studiosi l’obesità sarebbe la conseguenza di conflitti e disagi psicologici irrisolti, secondo altri le problematiche psicologiche che si osservano nelle persone obese (ad esempio la bassa autostima, l’immagine corporea negativa, l’anassertività) sarebbero conseguenze dello stigma che accompagna i soggetti obesi nella nostra società. Per oggi ci occupiamo della prima ipotesi, lasciando la discussione sulle conseguenze psicologiche alla prossima occasione.
Tra i fattori psicologici predisponenti è stato segnalato il ruolo significativo del temperamento, inteso come modalità innata di espressione degli stati emotivi e di interazione con l’ambiente. Il bambino, alla nascita, manifesterebbe già attitudini caratteriali che possono favorire lo sviluppo dell’obesità. Ad esempio, l’irrequietezza nella prima infanzia può portare il genitore a usare il cibo per tranquillizzarlo. In seguito questo bambino sarà portato ad utilizzare il cibo come mezzo di conforto nelle situazioni stressanti. Alcuni bambini fanno più fatica di altri nel decifrare i segnali provenienti dal proprio corpo (fame, sonno, evacuazione). Questa confusione potrebbe spiegare le difficoltà del bambino a seguire le normali indicazioni di comportamento. Dobbiamo precisare che le attitudini caratteriali innate interagiscono con lo stile educativo della famiglia, che può correggere i comportamenti inadeguati o esasperare le reazioni del bambino.
Gli studi sulla personalità del bambino obeso gli attribuiscono una tendenza alla passività, alla dipendenza dalle figure genitoriali, in particolare la madre, e alla depressione. Non è facile comprendere se questi tratti siano la causa del rapporto alterato con il cibo o la conseguenza dell’immagine negativa di sé dovuta allo stato di obesità. Altri autori parlano della tendenza molto presente nelle persone obese a ridurre l’ansia con l’assunzione di cibo. Questa ipotesi si fonda su una concezione psicosomatica dell’obesità, secondo cui gli individui obesi non avrebbero imparato a distinguere tra fame e ansia. Su una linea simile si muovono gli studi pionieristici di Hilde Bruch negli anni ’70. Questa studiosa ipotizzava una difficoltà del bambino a riconoscere fame e sazietà e a distinguerle da altre sensazioni di malessere legate a stati corporei o emotivi. Secondo la Bruch il bambino prova alla nascita sensazioni indifferenziate di malessere o benessere e impara a distinguere e comprendere i diversi bisogni corporei (fame, sete, bisogno di contatto, sonno, ecc.) attraverso le risposte della madre, che riconosce le richieste del suo bambino e le affronta in maniera diversificata e corretta. Se la madre è in difficoltà nel riconoscere il motivo del pianto del figlio, l’offerta del seno o del cibo rappresenterà comunque una risposta valida a placare il malessere e fornirà al bambino un’inconsapevole indicazione: “se stai male il cibo può farti stare meglio”. Il cibo, usato dalla madre in modo improprio, diventa inconsapevolmente per il bambino la risposta valida per qualsiasi tipo di disagio. Questa funzione polivalente dell’alimentazione si manterrà anche nell’età adulta quando ogni tipo di sensazione ed emozione, negativa e positiva, potrà trasformarsi nella ricerca di cibo.
Altre teorie pongono l’attenzione sulla difficoltà degli individui obesi a descrivere i propri stati emotivi. La mancanza di una capacità di discriminazione dei propri stati affettivi ed emotivi e la difficoltà di costruirne rappresentazioni elaborate conduce comunque all’adozione di comportamenti, anche se mal diretti, comunque efficaci a ridurre la tensione. Questo stato viene definito alessitimia, ovvero incapacità di riconoscere ed esprimere verbalmente le proprie emozioni. Alcune ricerche hanno mostrato come le famiglie dei bambini obesi presentino uno stile comunicativo carente nel descrivere le emozioni, soprattutto se si tratta di sentimenti negativi e conflittuali.
Altri autori sottolineano la dipendenza dagli stimoli e dai rituali legati al cibo. Secondo la teoria dell’esternalità l’odore, il gusto, la presentazione del cibo scatenano di per sé il desiderio di mangiare, ignorando la sensazione interna di sazietà. Questi soggetti vengono definiti “mangiatori esterni” e l’esternalità viene considerata un tratto di personalità. Dal lato opposto, i “mangiatori interni” sarebbero più sensibili ai segnali provenienti dall’interno del corpo (fame e sazietà). In uno studio degli anni ’70, 107 ragazze tra 9 e i 15 anni che partecipavano ad un campo estivo vennero poste nella condizione di poter disporre di cibo senza alcuna limitazione. Il risultato fu che le giovani con un più elevato punteggio di esternalità al termine dell’esperimento presentavano un aumento di peso maggiore delle altre. Può essere discutibile se l’esternalità rappresenti un tratto originario di personalità o sia uno stile alimentare conseguente alla condizione di obesità, di fatto i bambini obesi presentano uno stile esterno e le tecniche terapeutiche focalizzate sulla riduzione della risposta agli stimoli alimentari hanno mostrato buoni risultati. Questo dovrebbe farci pensare tutte le volte che distogliamo un bambino (ovviamente non in trattamento) dal suo atteggiamento alimentare spontaneo per seguire un’alimentazione più corretta, più sana o semplicemente più alla moda.